Sandro Mazzola grande campione e protagonista della Grande Inter degli anni 60 allenata da Helenio Herrera e della Nazionale Italiana di Ferruccio Valcareggi racconta a tutto tondo il calcio e la sua carriera prima da calciatore e poi da dirigente in esclusiva ai microfoni di StadioSport.it
Lei debuttò in Serie A in un Juventus-Inter 9-1 nella stagione 1960/61. Tra l’altro lei segnò su rigore. Cosa ricorda di quel giorno?
M: “Ricordo che eravamo tutti emozionatissimi perché l’Inter mando in campo la squadra dei ragazzi e non i titolari. E vederci davanti questi grandi giocatori della Juventus ci faceva un pò impressione. Ricordo Boniperti che venne a darmi la mano e mi disse che aveva giocato contro mio padre, che era stato un grande campione”.
Lei come allenatore ha avuto Helenio Herrea che l’ha consacrata. Come lo descriverebbe oggi?
M: “Un grande, aveva capito prima di molti altri cosa voleva dire allenare una grande squadra. Gli allenamenti erano corti, una volta si stava in campo anche due ore, si camminava, si parlava. Lui invece 45/50 minuti senza soste, tutto veloce e tutto rapido, perché in campo voleva che la partita si giocasse in rapidità”.
Lei ha vinto tra l’altro insieme all’Inter la prima Coppa dei Campioni della Grande Inter, segnando due gol in finale. Cosa si ricorda di quella partita?
M: “Mi ricordo di Alfredo Di Stefano che era il mio idolo. Fino a qualche anno prima in finale della Coppa c’era sempre il Real. Io facevo il tifo per Di Stefano. Ricordo che quando entrammo in campo, in un attimo di sosta lo vidi arrivare a metà campo e lo guardavo. Non mi sembrava vero e il mio capitano Armando Picchi che era un fenomeno mi disse : Senti noi andiamo a cominciare la partita, tu stai qui a guardare Alfredo. Allora lì mi svegliai dal sogno, per me giocare contro Di Stefano era un sogno”.
Quell’Inter lì era fortissima, in tutti i reparti, ma se lei dovesse riconoscere un merito, qual era la vera forza di quella squadra? I calciatori? L’allenatore? O tutte le componenti insieme?
M: “L’allenatore. Lui ci entrava in testa prima della partita per dirci quello che dovevamo fare. All’inizio pensavamo cosa dice questo qua? Alla fine invece eravamo convinti di quello che ci aveva detto ed entravamo in campo”.
In quegli anni lì le rivali dell’Inter erano il Milan e la Juventus, da parte vostra qual era la sfida più sentita? Con i Milan o con la Juventus?
M: “Con il Milan, perché all’ora essere i primi a Milano, nella tua città, era la cosa più importante, ci tenevamo molto”.
Con i suoi compagni all’Inter vincete tanti trofei, ma nel 1966/67 tra la finale con il Celtic e l’ultima giornata contro il Mantova, incredibilmente perdete entrambe le competizioni. Quali furono i motivi di queste due sconfitte?
M: “Eravamo distrutti, avevamo giocato in continuazione Coppa, Campionato, Nazionale. Poi giocavamo in un modo molto agonistico, molto rapido. Eravamo stanchi morti”.
Possiamo dire che era una squadra logorata?
M: “Logorata psicologicamente, non riuscivamo più a pensare a quello che dovevamo fare in campo”.
Forse era una squadra dalla pancia piena con tutti quei trofei…
M: “Mica tanto perché con l’allenatore che avevamo. Era una belva, ci chiedeva sempre di più, sempre di più”.
Nel 1968 l’Italia vince l’Europeo e lei è in campo. Cosa si ricorda di quell’Europeo, tra l’altro l’unico vinto dalla nostra Nazionale?
M: “Mi ricordo che all’inizio erano in pochissimi a credere che avremmo potuto vincere. Questo ci legò molto l’uno all’altro tra calciatori. Volevamo dimostrare che insieme eravamo capaci di vincere. Questa fu la spinta che ci portò fino in fondo a vincere”.
Lei ha giocato in tanti ruoli tra centrocampo e attacco. Se dovesse scegliere il suo preferito, quello nel quale si trovava meglio, quale sceglierebbe?
M: “Centrocampo, anche perché ci giocava il mio papà. Avevo sempre in mente come giocava lui e volevo giocarci anche io. Infatti a fine carriera riuscì a farlo”.
Si, tra l’altro lei nella prima parte di carriera gioca più come attaccante e nel 1964/65 vince la classifica cannonieri di Serie A con l’Inter che vince il campionato in rimonta davanti al Milan…
M: “Si si, è vero”.
Nel 1970, in quel famoso Mondiale messicano, vi fu la staffetta tra lei e Rivera. Secondo Sandro Mazzola, lei e Gianni Rivera potevate giocare insieme o era impossibile?
M: “In qualunque altra nazionale avremmo giocato assieme. Infatti gli altri allenatori intervistati lo dicevano. Però noi italiani siamo particolari e speciali… soffrivamo anche noi la rivalità che ci avevano messo perché noi eravamo tra quelli che avevano fatto il sindacato, andavamo sempre a Firenze per le riunioni, si partiva in macchina da Miano insieme, però l’Italia è l’Italia”.
Lei crede che senza quei supplementari con la Germania, l’Italia avrebbe potuto battere il Brasile?
M: “Noi diciamo di sì, però non so se è vero. Però ci vogliamo credere”.
Magari con Rivera e Mazzola tutti e due in campo insieme…
M: “Ecco si”.
Nel 1970/71 l’Inter vince il campionato in rimonta sul Milan dopo la sostituzione di Heriberto Herrera con Giovanni Invernizzi. Qual è stato per lei il segreto di quello scudetto inaspettato sotto certi aspetti?
M: “Heriberto era un grande allenatore, ma pretendeva sempre troppo, non ti dava i tempi di recupero. Invernizzi capì questo e ci convinse che potevamo farcela e infatti ebbe ragione lui e ce la facemmo”.
L’anno dopo ci fu la finale di Coppa dei Campioni contro l’Ajax. Ha qualche rimpianto legato a quella finale? Oppure quell’Ajax era troppo forte?
M: “Non c’era niente da fare, giocavano già un calcio che era 10 anni avanti rispetto a tutti, come rapidità, velocità e idee. Magari avremmo vinto se in finale fosse arrivata un’altra squadra”.
Dopo quel 1972 l’Inter passò un periodo di stagioni anonime, lei crede che fu tutto legato ad una questione di ricambio generazionale?
M: “Si, penso di si. Quelli che arrivavano erano spaventati dal fatto di sostituire quelli che avevano vinto tanto e quindi ci volle un po’ per rimetterli in condizione”.
Nel Mondiale del 1974 l’Italia si presenta in forma, dopo due anni di brillanti partite (la vittoria contro l’Inghilterra a Wembley) e qualificazione con l’imbattibilità di Zoff che durava da tempo. Come mai per lei l’Italia uscì in quel modo al primo turno?
M: “Avevamo speso tutto prima, quando la testa è confusa non c’è più niente da fare. Noi non ci sentivamo i più bravi e questo ci portò a fare cose che non dovevamo fare”.
Quindi pensa che il CT doveva già fare un ricambio generazionale?
M: “Sì, una buona parte era meglio farla prima”.
Tra i tanti gol segnati in carriera a quali è più legato? Forse i due al Real Madrid e quello al Milan dopo 13 secondi?
M: “A questi. Quelli al Real perché all’epoca era la squadra che aveva tutti quei fenomeni. Io non avevo dormito tutta la notte pensando che sarei andato in campo e ci sarebbe stato Di Stefano, Puskás e tutti questi grandi campioni. Quando feci gol fu una cosa favolosa”.
Lei ha affrontato Pelè, come lo descriverebbe?
M: “Pelè era la fine del mondo, mi ricordo quando incontrammo il Brasile a San Siro. Eravamo schierati a metà campo e io rimasi a guardare Pelè, Picchi mi disse, noi cominciamo la partita tu rimani qui a guardare Pelè. Era l’idolo di noi ragazzi”.
Che calciatore era Cruyff?
M: “Mamma mia! Mamma mia!. Lui era già di una generazione diversa, la nuova generazione dei calciatori, faceva tutto in rapidità. Tutti gli scambi, i dribbling, arrivava a tirare in porta, sempre con questo passo corto piccolo, però ti fregava sempre, fantastico”.
Che attaccante era Gigi Riva?
M: “Mamma mia, Rombo di tuono! Tu pensavi di sapere quello che avrebbe fatto, lui ne faceva sempre un’altra, sorprendeva sempre l’avversario. Quando ti aspettavi che faceva lo scambio non lo faceva, magari ti faceva arrivare la palla all’improvviso se tu non lo stavi guardando. Dopo gli allenamenti si facevano i tiri in porta e con lui la palla andava a centro all’ora sempre. Era preciso, un grande”.
Tra i vari marcatori che ha affrontato tra Juventus e Milan, chi la metteva in difficoltà e non la faceva girare?
M: “Qualcuno mi accompagnava pure in bagno, se andavo lui mi aspettava dietro la porta, perché all’epoca marcatura era marcatura. Poi tornavo in campo e lui era dietro. C’era Furino alla Juve. Mi ricordo che l’allenatore mi chiama quando ero punta per spiegarmi quello che dovevo fare per cambiare il modo di giocare. Tornai a centrocampo, in quel momento noi stavamo vincendo e loro attaccavano. Lui mi guardava e gli dissi che eravamo avversari e non in Nazionale, e lui mi fece: “Se non mi spieghi cosa ti ha detto il tuo allenatore come faccio a marcarti?”. Non ho capito niente, lui parlava spagnolo. Nel Milan c’era Rosato che era forte e lui a fine partita mi diceva: “Scusami, ma ho dovuto marcarti io e per me marcare è marcare”.
Parlando dei suoi compagni, c’era qualcuno con il quale ha legato di più fuori dal campo?
M: “Suarez era il mio maestro, io lo consideravo un grande maestro. Guardavo sempre quello che faceva lui, prima della partita, come prendeva la valigia, come metteva le scarpe. Era il grande campione che era arrivato da noi, e io volevo imparare da lui tutte le cose. Mi ricordo che all’ora si faceva fare le scarpe, i calciatori si facevano fare le scarpe dagli artigiani e quando andavamo a giocare in Spagna, arrivava l’artigiano spagnolo a portagli le scarpe. Lui all’inizio non me lo aveva detto, lo scoprì e mi feci fare le scarpe pure io che costavano tanto all’epoca e io ancora non guadagnano molti soldi. Ma prima di indossarle io le guardavo, le pulivo, gli mettevo il lucido. Poi le mettevo e dicevo che sono pure io un giocatore”.
C’è qualche trofeo nella sua carriera che avrebbe voluto conquistare o si ritiene soddisfatto così?
M: “No, sono soddisfatto, ho avuto la fortuna di giocare con una grande squadra con dei compagni favolosi. Ho vinto tanto, sono soddisfatto”.
Dopo il ritiro dal cacio diventa un dirigente, che esperienza è stata?
M: “Io ero già uno che andava a vedere gli allenamenti delle altre squadre quando venivano a giocare a Milano con l’Inter o con il Milan . Ero curioso, non volevo fare l’allenatore, ma volevo vedere quelli che lo facevano”.
Tra l’altro lei è opinionista e voce tecnica sia nel 1982 che nel 2006 ed entrambe le volte l’Italia diventa Campione del Mondo. Cosa ricorda di quelle due vittorie viste entrambe dalla tribuna stampa?
M: “Ero molto preso da questa nuova attività che facevo, sicuramente c’è la gioia di vedere chi magari aveva giocato con me e vederli in quella situazione era bello. Ma se no non ho ricordi particolari”.
Tornò a fare il dirigente all’Inter e fu lei a portare Ronaldo il fenomeno a Milano. Cosa si ricorda di quella trattativa difficilissima con il Barcellona?
M: “Fu un colpo di fortuna. Quando andai ad incontrarlo in Spagna, probabilmente usai una tattica giusta, quella di parlare con un fratello minore e non come il grande campione. Lui grazie a questo riuscì ad esprimersi con me e ricordo che una di queste chiacchierate mi disse non ti preoccupare, io vengo a Milano. E infatti lui ci venne. Lui era un fenomeno, già a vederlo in allenamento. Quando andavo a vedere gli allenamenti, a termine dell’allenamento c’era la partitina, lui segnava uno di quei gol che ne saltava 4 o 5 e poi aspettava il portiere, faceva la finta lo saltava e faceva il gol. Poi veniva da me per chiedermi se avevo visto quelle cose che aveva fatto”.
Tra i calciatori che ci sono oggi c’è qualcuno che le ricorda lei da calciatore?
M: “Devo dire di no, perché il nostro era un altro calcio, poi forse non ho la voglia di trovarlo”.
Che differenze ci sono tra il suo calcio e quello attuale?
M: “Il nostro calcio aveva più tecnica, inventiva. Oggi c’è ancora questa, ma c’è più rapidità, più tattica. La velocità di oggi è incredibile”.
Luca Meringolo © Stadio Sport
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