Oggi è l’anniversario della tragedia di Superga: il 4 maggio 1949 ebbe fine la leggenda del Grande Torino per un bruttissimo incidente aereo
Il cuore batte forte, le lacrime cominciano a scendere da sole, il volto è triste, lo sguardo è perso, la pelle d’oca è un brivido sul corpo… ricordi, sogni infranti, rimpianti, lutto. Qualcosa non va. In fondo, il calcio è solo uno sport, perché morire per esso?
E se non lo fosse? Certe storie trascendono lo sport, racchiudono umanità, superano il velo invisibile del calcio trasformandosi in poesia, diventando mito, ricordate come leggenda.
Eppure, ci sono storie che vanno oltre tutto ciò. Eppure, ci sono storie che sono epopee, poemi epici, che racchiudono gesta e ideali più nobili e puri. Perché, a volte, quel calcio, quello sport, non è altro che la realtà stessa della vita, solo nascosta dall’ombra della superficialità. Il calcio è molto più di un semplice sport: è vita.
Come il calcio, anche la vita regala la possibilità di lottare fino alla fine, talvolta anche dandoti una seconda chance. E, capita anche che ti dia una terza ed ultima opportunità di dimostrare il proprio valore e cancellare le angheria basandosi sui valori più puri e nobili, come il rispetto, l’uguaglianza, la fratellanza, la libertà.
Perché, in fondo, le gesta da sole sono inutili se non servono un ideale più nobile e puro…
Il calcio come vita e, come tale, ha storie da raccontare, spesso e volentieri felici. A volte, però, anche in questo mondo dorato, che molti erroneamente credono che sia un semplice sport, accadono disavventura, che si trasformano in tragedie.
Coloro che hanno perso la vita realizzando il proprio sogno suscitano lutto, ma vivranno in eterno, i loro nomi e le loro gesta saranno tramandate da padre in figlio, come leggende indimenticabili…
Molte squadre hanno una storia, ma solo il Toro è leggenda.
(Anonimo)
Questa è la storia della leggenda più importante del calcio. Questa è la storia della squadra più forte e amata di tutti i tempi. Questa è la storia di un gruppo di uomini veri, stroncata all’apice del proprio successo. Questa è la storia del Grande Torino, l’unica squadra capace di trasformare i sogni in fulgida realtà. Questa è la storia di una tragedia, che pose fine a quei sogni. Questa è la storia di chi ha scritto, allo stesso tempo, le pagine più belle e felici e quelle più brutte e tristi della storia del calcio.
Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto ‘in trasferta’.
(Indro Montanelli)
Ebbene, sì. Quel Torino è ancora con noi, batte con il nostro cuore, riecheggia nel ricordo nelle nostri menti. Quel Torino, il Grande Torino, è vivo e lo sarà per sempre, perché ci ha lasciato un testamento pieno di ricchezza, costituita da valori, storia di un prestigioso passato, che difficilmente sarà ripetuto in futuro, e un patrimonio di realtà, in uno sport, il calcio, che rappresenta la vita.
La tragedia non è morire, ma dimenticare.
(Museo del Grande Torino)
La nascita del Grande Torino avvenne nell’estate del 1939, quando l’industriale Ferruccio Novo assunse la presidenza del Torino succedendo a Cuniberti. Aveva finalmente realizzato il suo sogno Novo, da sempre tifoso granata ed ex calciatore nel 1913. Il talento con il pallone non c’era, ma l’amore per il Torino lo costrinse a seguire la squadra dopo a livello finanziario e amministrativo.
Una mente geniale quella di Ferruccio, che era consapevole della necessità di costruire la nuova squadra partendo dalle fondamenta, riorganizzando la società, circondandosi di ex giocatori granata, come Janni, Sperone e Ellena, che divennero suoi collaboratori. Il nuovo organigramma constò del nuovo amministratore delegato Agnisetta, dell’amico Copernico come consigliere, Lieversley nuovo allenatore delle giovanili, e, infine, Erbstein allenatore della prima squadra, che fu rinforzata con il primo acquisto di Novo, tal Ossola, 18enne del Varese, pagato la bellezza di 55 mila lire.
Erano gli anni più bui della storia dell’umanità. Erano gli anni della Seconda Guerra Mondiale, che vide l’entrata ufficiale dell’Italia il 10 giugno 1940. Però, il calcio doveva proseguire, perché era una valvola di sfogo, l’unico mezzo attraverso il quale si poteva scappare dalla realtà e rifugiarsi in un mondo ovattato.
Il nuovo acquisto Ossola non deluse le aspettative, diventando la rivelazione del campionato e dei granata con 14 reti in 22 presenze. Nonostante ciò, il Torino concluse il campionato posizionandosi settimo in classifica e, al termine della stagione, decisero di ritirarsi Vallone e Ussello, quest’ultimo subito tesserato nuovamente da Novo per lavorare nel settore giovanile.
La rivoluzione di Novo portò nell’estate 1941 agli acquisti di Ferraris II per 250 mila lire dall’Ambrosiana, Menti dalla Fiorentina in uno scambio con Gei, e, infine, Bodoria, Borel, per la modica cifra di 330 mila euro pur di strapparlo alla concorrenza del Genoa, che si era fermato a quota 300, e Gabetto dai rivali cittadini della Juventus.
E’ proprio in quelle settimane che Novo suggerì Erbstein di utilizzare il “Sistema”, una nuova tattica di gioco che stava subentrando al vecchio e caro “Metodo”.
Sono diverse le differenze tattiche. Il “Metodo” era molto difensivo, con una fase offensiva caratterizzata dal contropiede. Lanci lunghi che partivano dai difensori o dal centromediano giungevano ai centrocampisti avanzati o alle ali. Questi ultimi, rapidamente, servivano l’attaccante che finalizzava la manovra: in tutto non più di tre o quattro passaggi prima di tirare a rete. Grazie a questa tipologia tattica l’Italia di Pozzo vinse i due Mondiali del ’34 e del ’38.
Mentre il “Sistema” era una tattica di gioco molto più costruttiva nella fase offensiva, che era caratterizzata dal dinamismo e dal movimento della palla. La zona nevralgica era il centrocampo, mentre la difesa lavorava al fuorigioco con una linea più mobile e alta. Uno schema definito anche a WM: 3-2-2-3.
Nonostante questa nuova tipologia tattica di gioco, il Torino concluse la stagione secondo in classifica, dietro alla Roma, che vinse il titolo grazie alla vittoria nello scontro diretto e ai soli 3 punti di vantaggio, mentre in Coppa Italia i granata uscirono addirittura al primo turno.
Nell’aria si respirava un’aria nuova, c’era la netta sensazione che si poteva fare il salto di qualità definitivo. Il momento giusto era alle porte, Novo elaborava nuove idee a ritmi incredibili. Così, nell’estate del 1942 acquistò Mazzola e Loik per 1 milione e 400 mila lire dal Venezia, battendo la concorrenza della Juventus, Petron dal Padova e Mezzadra dal Ferro Corril Oeste. Ma, soprattutto, disse addio Erbstein, che venne sostituito dall’ungherese Kuttk, che aveva a disposizione anche altri giocatori di grande livello, come gli esperti portieri Bodoira e Cavalli, i difensori Ferrini ed Ellena, la qualità di Piacentini e Cassano, a centrocampo il cuore di Baldi e Gallea, oltre ai nuovi Loik e Mazzola, e gli attaccanti Menti e Ferraris, Gabetto e Ossola.
Ai nastri di partenza, ormai, non ci si poteva più nascondere. Il Torino era la squadra da battere. Dopo un difficile inizio contro la sorpresa Livorno, i granata riuscirono a vincere il campionato all’ultima giornata, grazie al gol di Mazzola contro il Bari. In realtà, al termine della stagione il Torino festeggerà il double con la vittoria della Coppa Italia contro il Venezia, finale vinta 4-0 con le reti di Mazzola, Ferraris II e la doppietta di Gabetto.
Fu l’inizio della leggenda del Grande Torino…
La stagione 1943/1944 si aprì con le difficoltà dovute ai problemi diplomatici legati alla Guerra e alla Linea Gotica, che portò alla suddivisione del campionato in gironi. Il Torino di Novo firmò una collaborazione con la FIAT, cambiando nome in “Torino FIAT”, diventando quindi una squadra ‘aziendale’. In poche parole, i giocatori erano operai dell’azienda. Il presidente Novo continuò la sua campagna di rafforzamento, acquistando Griffanti dalla Fiorentina e Piola dalla Lazio, salito al nord per prendere la famiglia e portarla a Roma, ma rimasto bloccato in seguito all’armistizio.
Il Torino giocò nel girone Ligure-Piemontese e rispettò le attese, mostrandosi la squadra più forte e una vera e propria schiacciasassi, almeno fino alle fasi finali. Fu però una partita amichevole della nazionale, organizzata per motivi di propaganda e disputata a Trieste due giorni prima della finale contro lo Spezia, a decidere il torneo. Infatti, la trasferta fu resa difficoltosa dalle operazioni di guerra, il presidente Novo, sottovalutando gli avversari, rifiutò la proposta della federcalcio di rinviare la gara contro gli spezzini che, più freschi, non lasciarono Milano dopo il pareggio per 1-1 contro il Venezia. Furono i liguri ad aggiudicarsi il doppio incontro con la vittoria per 2-1 dell’andata, che rese inutile la rimonta per 5-2 del ritorno da parte dei granata.
A causa della Guerra, il campionato venne sospeso per un anno, ma riprese nell’estate del 1945 con una nuova formula: al nord c’era il campionato dell’Alta Italia, nel quale potevano partecipare solo le squadre che erano nella prima divisione nella stagione 1943/44; al sud c’era il Torneo Misto, nel quale potevano partecipare sia le squadre di prima divisione che di seconda divisione. Solo al termine dei suddetti raggruppamenti le prime quattro classificate di entrambi i tornei si sarebbero qualificate alle finali, che avrebbero così determinato la vincitrice dello Scudetto.
Il presidente Novo voleva tornare sul tetto d’Italia e non badò a spese, acquistando il portiere Bagicalupo dal Savona e il terzino Ballarin dalla Triestina, insieme a Grezar, facendo ritornare dai prestiti Maroso dall’Alessandria, Rigamonti dal Brescia e Castigliano dallo Spezia. Ci fu pure il cambio in panchina con l’arrivo di Ferrero, protagonista assoluto con la sorpresa Bari.
Dopo la sconfitta nel derby contro la Juventus, il Torino ingranò la marcia e stravinse il proprio girone. Poi, nelle fasi finali, i granata distrussero la Roma 6-0, il Napoli 7-1, il Pro Livorno 9-1, vinse nel derby successivo con il gol di Gabetto e festeggiò la vittoria del secondo campionato battendo ancora gli amaranto 9-1 al Filadelfia, con il contemporaneo pareggio dei bianconeri contro i partenopei.
Erano però per me, e non soltanto per me, come una luce in un tempo buio. Io non so se lei si ricorda il dopoguerra, l’Italia in ginocchio, distrutta. Questi ragazzi erano armonia… in tutti questi contrasti. Loro come altri campioni, Coppi, Bartali o gli olimpionici del ’48, avevano dato una speranza al nostro Paese. Una speranza di ricostruire. Erano lievi ma invincibili. Un sogno erano.
(Anonimo)
Con la fine della Guerra, la federcalcio italiana decise di tornare al campionato unico con 20 squadre nell’estate del 1946. Il Torino continuò la propria campagna di rafforzamento con gli acquisti del mediano Martelli dal Brescia, lo stopper Rosetta dal Novara, il portiere Piani e Tieghi dalla Pro Vercelli, riportando a casa dal prestito Menti.
Anche in questo caso l’inizio non fu dei migliori, con pareggi e sconfitte nelle prime sei partite. Poi, però, l’autorità, la potenza, la velocità, lo stile e l’eleganza del gioco di Ferrero, oltre alla crescita della consapevolezza di forza in tutta la squadra, risultò assolutamente decisiva per la vittoria del terzo Scudetto, questa volta con 10 punti di vantaggio sulla Juventus seconda in classifica e il record di 104 gol segnati in stagione, con Mazzola capocannoniere della classifica marcatori con 29 reti.
Il Torino cominciava ad essere leggenda, un mito vivo ancora prima di concludersi. Ma i granata non erano ancora sazi, soprattutto di fronte alla storia. Nel 1947/1948 il nuovo campionato di calcio italiano di prima divisione venne disputato da 21 squadre per la prima e unica volta, per motivi geopolitici, con 40 partite totali da inizio settembre a metà giugno, senza soste.
Il nuovo Torino fu affidato a Sperone, ex collaboratore di Erbstein, e Novo decise di acquistare anche il terzino Tomà dallo Spezia e l’attaccante Fabian dal Carmen Bucarest. Questa fu una stagione storica, irripetibile per chiunque, dove crollarono tutti i record e dove si registrarono alcune partite storiche, come il 10-0 rifilato all’Alessandria. Fu solo la punta dell’icerberg di una stagione con 21 risultati utili consecutivi, che valsero la vittoria del quarto Scudetto, il terzo consecutivo, con addirittura 16 punti di distacco dalla seconda in classifica e un compunto totale di 29 vittorie su 40 partite, 125 goal segnati e 33 goal subiti.
Il Filadelfia. Uno stadio dove il Torino non aveva mai perduto per quasi sei anni, dove in cinque campionati le squadre ospiti erano riuscite a portare via appena otto punti. Un vecchio stadio da trentamila posti, gradinate e tribune a un metro dal terreno. Quando i granata battevano la fiacca, succedeva anche a loro, c’era un trombettiere che suonava la carica e capitan Valentino si rimboccava le maniche. Allora il Toro si scatenava, sembrava che in campo ci fosse un’invasione di maglie granata e i gol fioccavano.
(Giorgio Tosatti)
Ma la perla più brillante di luce inesauribile di quella stagione, che perpetua nel tempo il ricordo di quel Torino, fu il record con la nazionale. Infatti, nell’Italia che l’11 maggio 1947 affrontò e battè l’Ungheria 4-1 si annoveravano ben 10 giocatori granata.
D’altronde, il feeling tra l’Italia e il Torino fu rinsaldato dalla nomina di Novo come nuovo ct, dopo l’eliminazione della nazionale di Rocco dalle Olimpiadi di Londra del 1948. Forse, resta tuttora l’unico caso di un presidente di un club a guidare anche una nazionale.
Il doppio ruolo non sconvolse i piani di Novo, che in estate cedette Ferraris II al Novara, acquistando il mediano Fadini dalla Gallaratese, il fratello di Ballarin, portiere, dal Chioggia, il terzino Operto dal Casale, la mezzala Schubert dallo Slovan Bratislava, gli attaccanti Bongiorni e Grava dal Racing Parigi e Roubaix Tourcoing. Ma ancora più importante fu la visione all’estero del Torino, considerata la squadra più forte, non solo d’Italia, ma forse nel mondo.
Quel Grande Torino non era solo una squadra di calcio, era la voglia di Torino di vivere, di tornare bella e forte; i giocatori del Torino non erano solo dei professionisti o dei divi, erano degli amici.
(Giorgio Bocca)
Il nuovo campionato tornò al vecchio format di 20 squadre. Da parte sua, Novo richiamò Erbstein, coadiuvato dall’inglese Lievesley, in panchina, e accettò di mandare la squadra in tournée in Brasile per propaganda e business, stancandola nella trasferta intercontinentale e rendendo il campionato più equilibrato, ma comunque dominato dai granata, che a quattro giornate dal termine del campionato erano primi in classifica con quattro punti di vantaggio sull’Inter, seconda in classifica.
Il mondo chiamò, il Torino rispose. Perché, a volte, non basta essere i più forti, ma bisogna dimostrarlo anche nelle partite che non contano, quelle senza stimoli, quelle senza obiettivi. Semplici amichevoli, che però valevano la pena di essere giocate per il semplice gusto, per il semplice amore, per la semplice passione di questo sport.
A chiamare fu il Benfica e il Torino rispose presente presentandosi in Portogallo per accontentare Francisco Ferreira, allora capitano dei lusitani, che voleva ritirarsi e organizzare la partita dell’addio al calcio giocato proprio contro Mazzola, con cui aveva costruito una bella amicizia, fatta di stima e rispetto reciproco, dopo una vittoria dell’Italia contro la nazionale portoghese per 4-1. E, del resto, lo stesso Mazzola non se la sentì di ritirarsi indietro, convincendo Novo e organizzando un patto con Ferreira, grazie al quale l’incasso della partita sarebbe dovuto andare in beneficenza.
Il giorno della partita fu il 3 maggio. Il Torino partì direttamente da Milano, dopo il pareggio con l’Inter, ma non presero parte alla spedizione il difensore Sauro Tomà, bloccato a Torino da un infortunio, e un deluso Gandolfi, il secondo portiere, a cui solo all’ultimo era stato detto che in Portogallo non sarebbe andato, visto che Aldo Ballarin convinse il presidente Novo a premiare per questo incontro amichevole suo fratello Dino, che in rosa era il terzo portiere. Lo stesso presidente, insieme a Copernico, rimase a Torino, mentre Agnisetta e Civalleri furono i dirigenti accompagnatori con Bonaiuti, responsabile della trasferta, e i tecnici Lievesley e Erbstein, mentre per il ruolo importante del massaggiatore partì anche Vittorio Cortina. Partirono per il Portogallo anche i giornalisti Casalbore, fondatore di Tuttosport, Tosatti e Cavallero.
Il 3 maggio 1949, allo Stadio Nazionale di Lisbona, il Torino fu in campo di fronte a una folla di quarantamila spettatori con Bacigalupo, A. Ballarin, Martelli, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola e Ossola. Per il Benfica: Contreros, Jacinto, Fernandes, Morira, Felix, Ferreira, Corona, Arsenio, Espiritosanto, Melao, Rogério. Entrarono a partita in corso Fadini al posto di Castigliano e Bongiorni al posto di Gabetto. Nei portoghesi, invece, si avvicendarono il portiere Contreros con Machado, Corona con Batista, Espiritosanto con Julio.
La voglia di divertire il pubblico era tanta… così vennero messe da parte le tattiche difensive e ci furono tanti gol. Al 4′ minuto un Mazzola non al meglio, lanciato da Loik, tirò fuori a porta vuota. E, allora, toccò a Ossola, con la collaborazione di Grezar, Menti e Gabetto, ad aprire le marcature al 9′. Dopo dieci minuti, i lusitani prima pareggiarono e, poi, con una doppietta di Melao e una rete di Arsenio chiusero il prima tempo addirittura in vantaggio 3-2, con il momentaneo pareggio del 2-2 di Bongiorni. Nel secondo tempo il Benfica allungò il passo con Rogerio, ma all’ultimo minuto Mazzola venne atterrato mentre si dirigeva verso la porta, costringendo l’arbitro a fischiare rigore, trasformato in goal da Menti. La partita finì con uno spettacolare 4-3, che rese tutti felici, contenti e soddisfatti.
Niente poteva cancellare una simile festa… forse. Perché il destino aveva ancora qualcosa in serbo per il Grande Torino.
Fu il 4 maggio 1949. Fu il trimotore FIAT G. 212 delle Aviolinee Italiane. Fu il rientro da Lisbona. Furono le fitte nebbie che avvolgevano Torino e le colline circostanti. Furono le ore 17:05. Fu la fuori rotta per l’assenza di visibilità.
Un crepuscolo durato tutto il giorno, una malinconia da morire. Il cielo si sfaldava in nebbia, e la nebbia cancellava Superga.
(Cinegiornale Incom)
Fu l’aeroplano. Fu lo schianto contro i muraglioni di sostegno del giardino, posti sul retro della basilica. Fu l’impatto che causò la morte istantanea di tutte le trentuno persone a borda, tra calciatori, staff tecnico, giornalisti ed equipaggio. Fu la fama della squadra. Fu la tragedia di Superga.
Forse era troppo meravigliosa questa squadra perché invecchiasse. Forse il destino voleva arrestarla nel culmine della sua bellezza.
(Carlo Bergoglio)
Fu una tragedia imprevista ed imprevedibile. Fu la fine dei sogni diventati realtà. Fu una storia che ebbe una grande risonanza a livello mondiale, non solo italiana. Ma, soprattutto, fu un lutto impensabile da poter alleviare, soprattutto in Pozzo, che ebbe l’ingrato compito, dopo essere stato chiamato d’urgenza, di raggiungere quelle colline di Superga per riconoscere i copri dilaniati di quei giocatori che conosceva fin troppo bene.
Il giorno dei funerali quasi un milione di persone scese in piazza a Torino per dare l’ultimo saluto ai campioni. Neanche a dirlo, ancora a Pozzo toccò pronunciare l’elogio funebre.
Soltanto il fato li vinse.
(Anonimo)
Così ebbe fine la squadra degli Invincibili. Così si concluse la storia del Grande Torino, che chiuse quella stagione schierando la formazione giovanile nelle ultime quattro partite. Ma il rispetto dei morti fu troppo grande da parte degli avversari di turno, che fecero lo stesso portando i granata ancora a vincere il campionato per la quinta volta in sette anni, il quarto titolo consecutivo.
Sarà impossibile dimenticare il Grande Torino, simbolo di forza, orgoglio e rinascita nazionale. Sarà impensabile non ricordare la tragedia di Superga e i tanti morti. Ma, soprattutto, sarà nostro compito cullare il mito, tramandare la leggenda e crogiolarci nella storia di coloro che avevano toccato il Paradiso in vita, furono essi stessi l’Olimpo, per poi essere trasformarsi in Dei… perché, ormai, non c’era più nessuno da battere.
La storia del Grande Torino ci insegna che lo sport è sacrificio e il sacrificio è vittoria.
Muore giovane colui che è caro agli Dei.
(Giacomo Leopardi)
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